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8/10

Mozes, Il Pesce E La Colomba regia di Virág Zomborácz

Commedia
recensione di Elena Rimondo

Il giovane Mózes fa ritorno a casa dopo un periodo di ricovero per problemi psichici. Ad attenderlo vi sono una zia arrogante, una sorella adottiva, una madre buona ma remissiva e, soprattutto, il padre, un autoritario pastore protestante. Quando questi muore improvvisamente, Mózes inizia ad essere perseguitato dal suo fantasma. Che cosa vuole? Nel tentativo di disfarsi dell’ingombrante spirito, Mózes intraprende un viaggio alla scoperta della propria identità.

 

Mózes, il pesce e la colomba è il surreale titolo italiano del primo lungometraggio della giovane regista ungherese Virág Zomboràcz, il cui titolo originale Utóélet significa in realtà “oltretomba”, “vita oltre la morte”. Se, da un lato, nel titolo italiano va perso il rimando ad un sottogenere cinematografico molto frequentato, dall’altro viene dato risalto al tono del film, nel quale la realtà assume contorni tra il bizzarro e il fantastico. Mózes, un ragazzo buono e sensibile, è costretto a lasciare l’istituto in cui era stato ricoverato per problemi psichici e dove era seguito da un medico al quale – si intuisce – era molto affezionato. Di tutt’altra natura è il rapporto con la famiglia, tenuta in scacco da Tulipan Janos, il padre autoritario che tutto sembra fuorché un pastore protestante. Come se non bastasse, Mózes deve fare i conti con una zia insopportabile che non fa altro che metterlo in imbarazzo ricordandogli la sua diversità. Si capisce, quindi, perché Mózes non sia più di tanto toccato dalla morte del padre, che si prospetta più come una liberazione che una perdita. Sul più bello, quando finalmente il giovane avrebbe l’opportunità di decidere cosa fare della propria vita, ecco che il fantasma del padre comincia a materializzarsi nei momenti meno opportuni. Nessuno, tranne Mózes, riesce a vederlo, nemmeno il meccanico del paese esperto di spiritismo, il quale gli dà alcune dritte per disfarsi dello spettro. Il problema è che il fantasma non parla, non si rende conto di essere morto e per di più non si ricorda chi fosse quand’era in vita. Tocca quindi a Mózes l’ingrato compito di far traghettare lo spirito nell’aldilà, un compito che gli permetterà di chiudere definitivamente col passato e di trovare la propria identità. Mentre era in vita, infatti, Tulipan Janos non era certo quel che si dice un padre comprensivo, ed è proprio per rimediare agli errori che ha commesso come padre che ritorna sotto forma di spirito.

La storia di Mózes è a metà strada tra il surreale e il realismo magico, ma è anche vero che dice molto di più sull’Ungheria, e in genere sull’Europa dell’Est, che non uno sbrigativo servizio al telegiornale. La storia si svolge in un minuscolo villaggio di campagna dove s’insegnano ancora i balli tradizionali, ma in realtà la piccola comunità cui Mózes fa ritorno è in fermento. La voglia di cambiamento, di modernità, scatena conflitti in apparenza impercettibili che il giovane protagonista, con la sua sovversiva diversità, non fa altro che accelerare. Alla morte del dispotico Tulipan Janos, non solo Mózes, ma tutta la comunità sembra tirare un sospiro di sollievo. Se il figlio scopre l’amore, la sorella bigotta è addirittura vittima di una passione travolgente per il nuovo pastore del paese. Infine, la poco ortodossa recita teatrale che Mózes mette in scena per Natale incontra il favore di una fetta non trascurabile di spettatori, malgrado l’ossessione per il realismo del regista provochi un incendio disastroso.

Il rapporto conflittuale tra padre e figlio diventa così la metafora di un Paese di fronte ad un bivio: da una parte, la famiglia tradizionale di tipo patriarcale e la religione, dall’altra la cultura occidentale. La scelta non è solo tra due tipi di musica (i canti tradizionali o il pop americano), ma tra due modi di essere opposti, ben esemplificati dall’atteggiamento verso la natura e gli animali (il pesce del titolo) di padre e figlio. Il merito del film sta nel fare del conflitto tra generazioni e tra progresso e modernità l’oggetto di un’ironia lieve e mai banale che ribalta la storia tragica di Amleto.

 

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