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8/10

La Vita Segreta Delle Parole regia di Isabel Coixet

Drammatico
recensione di Elena Rimondo

Una misteriosa donna di nome Hanna, di professione operaia, si fa assumere come infermiera su una piattaforma petrolifera, dove Joseph, un uomo rimasto ustionato in un incidente, ha bisogno di cure. Tra i due nasce un rapporto di affetto reciproco ed entrambi ritrovano fiducia nel potere della parola, grazie al quale si scopre il doloroso passato di Hanna e il motivo del senso di colpa che affligge Joseph.

Se un film è stato snobbato alla Mostra del Cinema di Venezia, state pur sicuri che è un film che vale la pena vedere. Lo dimostra un film come La vita segreta delle parole, diretto dalla catalana Isabel Coixet, ma recitato da un cast internazionale.

Va detto fin da subito che il film della Coixet non è affatto facile, e non solo a causa dei temi trattati. Lo spettatore ideale dev’essere paziente, perché la protagonista e il suo comportamento restano fin quasi la fine del film un enigma da comprendere, più che da risolvere. Il suo nome è Hanna e di lei sappiamo ben poco. Porta un apparecchio acustico perché è sorda, vive da sola, lavora in una fabbrica di filati ed è una stacanovista, a tal punto che il capo le ordina di prendersi un mese di ferie. Invece di prenotare un viaggio ai tropici, però, Hanna si dirige verso una malinconica località affacciata sul Mare del Nord, dove trova un uomo alla disperata ricerca di un’infermiera che si occupi di un collega rimasto ferito in un incidente su una piattaforma petrolifera. Così Hanna finisce per passare il suo mese di ferie al capezzale di Joseph, un grande ustionato oppresso da un profondo senso di colpa. Poco a poco tra paziente e infermiera si crea un legame di complicità, affetto e fiducia reciproca.

La vita segreta delle parole è un film sul dolore, il senso di colpa, la vergogna, l’amore e la guerra. Più precisamente, sulle tragiche conseguenze della guerra e gli effetti inaspettati del dolore. Nulla, comprese l’ambientazione della storia, che si svolge quasi interamente sulla piattaforma petrolifera, e la vita anodina di Hanna, lasciano presagire che si tratta di un film sulla guerra. Non dirò a che conflitto in particolare fa riferimento il film per due motivi. Il primo è per non svelare a chi non ha visto il film il segreto di Hanna, vale a dire il suo passato. Il secondo è che già il film di per sé riflette sulle atrocità di qualsiasi guerra e sulla crudeltà gratuita dell’uomo, di qualsiasi nazionalità esso sia. Il film della Coixet assume un carattere universale proprio per il fatto che le scene di guerra sono totalmente assenti, ma la violenza e l’orrore arrivano allo spettatore sotto forma di parole, quelle di Hanna. Ecco spiegato l’ermetico titolo, il cui senso diventa chiaro solo alla fine. I protagonisti parlano poco o, nel caso di Joseph, raccontano aneddoti apparentemente insignificanti o persino divertenti, perché le parole per raccontare il dolore vissuto fanno fatica ad uscire. Il film è una riflessione sulla potenza della parola e del racconto. Per Hanna, raccontare significa in un certo senso rivivere il passato, ma il vero motivo per cui è restia a parlare è che ormai ha perso fiducia nell’efficacia della parola. A che serve raccontare, se non si viene creduti o, peggio, se le parole vengono presto dimenticate? Hanna sa bene che l’incredulità e l’oblio sono molto spesso i rischi che incontrano le parole di chi ha vissuto l’orrore, ed è per questo che spegne l’apparecchio acustico quando si rifiuta di ascoltare gli altri. Il film lascia irrisolto il dubbio se il dolore abbia un’utilità. Da un lato, sembra che solo chi ha conosciuto il dolore, come Joseph, sia in grado di capire il dolore degli altri, ma dall’altro la sofferenza ha reso insensibile e schiva la protagonista, anche se è il contatto col dolore altrui si rivela la migliore terapia per il suo trauma.

Per fortuna, la tragicità del tema è stemperata qui e là da battute e scene quasi comiche. Tutto sommato, la storia si svolge su una piattaforma, dove, si sa, convive per mesi una comunità tutta maschile (più un’oca, in questo caso). Ecco quindi che ognuno cerca di ammazzare il tempo e lo sconforto cucinando piatti esotici, studiando i mitili o improvvisando spettacoli canori.

Nel film ha una parte anche Julie Christie, nei panni della terapista Inge Genefke, personaggio realmente esistente.

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