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R Recensione

7/10

La Pelle Dell Orso regia di Marco Segato

Drammatico
recensione di Elena Rimondo

Anni Cinquanta. In un villaggio sulle Dolomiti bellunesi un orso terrorizza gli abitanti sbranando gli animali. Pietro, un vedovo scorbutico e perennemente ubriaco osteggiato dai compaesani, decide di partire per trovare l’orso e ucciderlo. La sua sfida viene accolta con risate di scherno, ma Pietro non desiste. Il figlio Domenico si lancia all’inseguimento del padre, benché questi sia divenuto quasi un estraneo ai suoi occhi. Complici la solitudine dei boschi e i pericoli incombenti, padre e figlio si riavvicineranno, riscoprendo l’affetto reciproco.

In questo ultimo periodo la letteratura e il cinema sembrano aver riscoperto il rapporto tra genitori e figli, in particolare tra padri e figli. Tra i tanti si ricordano, ad esempio, la commedia nostrana Mamma o papà? (2017) di Riccardo Milani con Paola Cortellesi e Antonio Albanese, e il tragico Un padre, una figlia (2016) del romeno Cristian Mungiu. La pelle dell’orso, tratto dall’omonimo romanzo di Matteo Righetto, s’inserisce nel medesimo filone, ma il rapporto tra padre e figlio ha delle caratteristiche particolari. Innanzitutto, non si può di certo dire che il problema sia costituito dall’eccessivo attaccamento del padre verso il figlio. Anzi, tra Pietro e il figlio Domenico è sparito ogni tipo di dialogo, tanto che i due si comportano come dei perfetti sconosciuti. In secondo luogo, la figura materna qui è assente, anche se solo all’apparenza. Domenico, infatti, è rimasto orfano di madre anni prima, ed è proprio il desiderio di sapere le circostanze della sua morte che lo spinge a riavvicinarsi al padre. Il dolore, prima che l’affetto, è ciò che permette a padre e figlio di ristabilire un dialogo e un rapporto. Allo stesso tempo, sul suo percorso alla ricerca del padre, Domenico incontra una donna destinata a diventare, seppur per poco tempo, una sorte di madre adottiva: si tratta di Sara, una venditrice ambulante, figura un tempo molto diffusa nei paesi di provincia e in montagna, ma oggi praticamente scomparsa. Look da femminista ante-litteram per necessità, più che per scelta, sarà lei ad impartire a Domenico una specie di educazione sentimentale e ad insegnargli il rispetto per l’altro sesso. Dal padre, invece, Domenico impara a confrontarsi con una natura più matrigna che madre benevola. Da questo punto di vista l’orso è la metafora perfetta, poiché concentra su di sé tutto ciò che di negativo l’uomo attribuisce alla natura, ovvero forza bruta e incontrollabile, crudeltà e potere distruttivo. L’orso incombe sul villaggio e sui due protagonisti fin dall’inizio del film, ma si palesa solo verso la fine, in una scena che, proprio perché girata senza far ricorso ad effetti speciali, può benissimo competere con quella, celeberrima, di Revenant, in cui Leonardo di Caprio viene ridotto in fin di vita da un’orsa furibonda. L’orso, insomma, è una metafora del male, e non a caso gli abitanti del villaggio, visto lo stato in cui sono state ridotte le loro bestie, si convincono che sia il “diaol” (il diavolo) a visitare le loro stalle di notte. E poiché il diavolo è “responsabile” delle malefatte umane, probabilmente l’orso spaventa perché in lui l’uomo vede riflessa la sua crudeltà. Portare a casa “la pelle dell’orso”, costi quel che costi, è per Pietro l’unico modo per espiare le proprie colpe e per riconquistare la dignità perduta agli occhi della comunità. Man mano che la ricerca dell’orso si fa sempre più faticosa e scarse le probabilità di trovarlo, sfuma il sospetto che Pietro si ostini a perseverare per la ricompensa in denaro promessagli dal suo capo. Ben presto la sfida contro i compaesani si trasforma in una sfida contro sé stesso (per aver salvo l’onore e l’affetto del figlio) e la natura, che è la vera protagonista del film. La furia distruttiva dell’orso è preannunciata nelle nubi temporalesche che si addensano a gran velocità, sulle cime impervie dei monti, negli strapiombi e nei temibili morsi di vipera. La solitudine imposta dalla montagna e la minaccia incombente fanno però scaturire l’affetto sopito tra padre e figlio, un affetto che si esprime non tramite le parole – i dialoghi sono pochi e scarni – ma attraverso sguardi e momenti (per lo più di paura) condivisi. E qui un elogio particolare va a Marco Paolini, che nel ruolo del padre divorato dalla rabbia e dall’alcol si rivela essere anche un ottimo attore di cinema.

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