R Recensione

10/10

El Club regia di Pablo Larrain

Drammatico
recensione di Enrico Cehovin

Un gruppo di preti vive in una casa sulla costa cilena dove una suora si prende cura di loro.

"Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre." È questa la citazione della Genesi con cui Pablo Larraín ha deciso di aprire il suo nuovo film, El club, presentato in concorso alla 65ª Berlinale. Ed è così che il regista cileno ha facilitato allo spettatore la comprensione di una scelta stilistica tanto azzardata quanto riuscita, quella di prediligere una fotografia slavata ponendo sempre i personaggi in controluce, figure (o)scure che si stagliano contro un cielo plumbeo, specchio delle anime che abitano quelle sagome. Perché è di anime nere che ci parla.

Innanzitutto bisogna premettere che de El Club si sapeva poco niente, fino a un mese fa se ne ignorava perfino l'esistenza rivelata proprio dall'annuncio della presenza in concorso alla Berlinale, e poi pochi elementi di trama forniti dal catalogo: quattro preti e una suora allevano un levriero su una casa sulla spiaggia quando l'arrivo di un quinto uomo ribalterà questo equilibrio. Ma il motivo per cui quei servi del signore fossero lì nessuno lo sapeva: tutti peccatori, quasi tutti pedofili, rifugiati e protetti dal Vaticano, tenuti lontani dalle persecuzioni.

Come già ampiamente dimostrato con Tony Manero e Post Mortem, Pablo Larraín non si ferma davanti a niente e non ha nessun timore nel descrivere le bassezze di cui è capace di macchiarsi l'uomo. Le parole, le accuse, che mette in bocca ai suoi personaggi sono parole dure, violente, che feriscono, difficili da tollerare per lo spettatore e per gli altri personaggi, non condannando mai direttamente, lasciando che a trarre le proprie conclusioni (e inevitabilmente a condannare) sia lo spettatore.

Che Pablo Larraín sia un fuoriclasse è già cosa consolidata, e vederlo muoversi fuori dal suo "solito" ambiente ne è la riconferma. Perché lasciato, almeno momentaneamente, da parte il Cile governato da Pinochet che aveva esplorato con i film precedenti (Tony Manero,Post Mortem, No - I giorni dell'arcobaleno), il regista ambienta la vicenda nel presente e continua la sua linea di pensiero volta alla critica sociale del suo Paese ma attualizzando la sua visione e denunciando non più il passato bensì la situazione contemporanea: perché quel club fatto di mostri che "espiano" i propri peccati vive in un carcere d'oro dallo spazio limitato ma ancora ospitale, un purgatorio sulla carta ma senza un'effettiva punizione (e possibile redenzione). A meno che qualcuno non intervenga. Larraín parla di un'istituzione privilegiata che ha il potere di nascondere i propri crimini e i propri criminali, un'istituzione più globale del governo militare di Pinochet e quindi più facile da universalizzare e non confinare a un paese soltanto, una naturale continuazione del discorso che sta filmando sempre più coraggiosamente, riuscendo a coniugare una problematica attuale e scottante che può essere anche letta come metafora delle conseguenze del governo di Pinochet stesso (uno dei preti è stato scomunicato per aver coperto crimini dell'esercito, sancendo quindi il legame tra l'istituzione militare e quella ecclesiastica.) Un discorso quindi ben circoscritto ma allo stesso tempo generalizzabile su chi ha subito abusi, ne soffre ancora le conseguenze e ancora oggi non ha ancora trovato pace e giustizia.

Qui alla Berlinale è stato accolto unanimemente guadagnandosi l'applauso più caloroso sentito finora a una proiezione stampa e rivelandosi il candidato più meritevole di essere insignito dell'Orso d'Oro.

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