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10/10

Daunbailò regia di Jim Jarmusch

Noir
recensione di Alessandro Pascale

 

Roberto, uno sprovveduto turista italiano in America, a causa di un omicidio involontario, si ritrova in carcere a condividere la cella con due delinquenti: Zack, un disc jockey-truffatore e Jack, uno sfruttatore di prostitute. Dopo l'iniziale diffidenza, riesce a conquistare la loro fiducia ed insieme riescono a scappare.

I tre si perdono in un territorio paludoso, litigano per la fame e per la divergenza di idee, si separano, si riuniscono ed infine giungono ad una casa sperduta nella foresta. L'italiano si innamora della proprietaria e decide di rimanere a vivere con lei. Gli altri due ripartono dopo una notte di riposo e al primo bivio che incontrano lungo la strada si separano.

 

I veri capolavori sono tali perché validi in ogni tempo, e Daunbailò è uno di questi. Fin dal titolo emerge tutta la goliardia e la gioia scherzosa di un’opera indimenticabile per molteplici aspetti: l’estetica in bianco-nero così squisitamente underground e vintage, le canzoni di Tom Waits come colonna sonora (buona parte delle quali andanti a formare un altro capolavoro musicale quale è il disco Rain Dogs), lo stesso Tom Waits attore, la sfrenata italianità guascona di Roberto Benigni, le sublimi carrellate paesaggistiche messe in piedi da Jarmusch, le penetranti inquadrature fisse e statiche di Jarmusch, in definitiva l’incredibile artisticità che trasuda da ogni singola inquadratura e immagine.

Come in ogni opera di Jarmusch la dimensione scelta è quella di narrare storie particolari di uomini soli, tendenzialmente sconfitti, un po’ sfigati magari, e incapaci di adattarsi in maniera adeguata ai canoni della società. Prendiamo i tre personaggi protagonisti: Zack (Tom Waits) è un dj che non riesce a mantenere né un lavoro fisso né una relazione sentimentale stabile. È il classico lupo solitario un po’ apatico che bofonchia addosso al prossimo dei malinconici “fuck you” come intercalari, senza che ci creda davvero in maniera rude e violenta. Jack (un John Lurie in grado di tenere botta, nonostante un po’ schiacciato dagli altri due ingombranti protagonisti) è un pappone benevolo e impassibile che non si fida del prossimo ma sembra sforzarsi di vivere una vita appena più sociale senza impegnarsi troppo.

Lo scontro tra due personalità così forti è nefasto, tanto da far volare spesso le mani, e non sembra esserci niente in grado di far superare le insormontabili divergenze. Invece le due macchiette metropolitane alla Humphrey Bogart riescono a unirsi, superando i rispettivi machismi, grazie al collante costituito da Bob (Roberto Benigni), biliardesco assassino italiano col vizio del gioco d’azzardo (da baro). Lo sfrenato animo vitalistico e mediterraneo di Bob spiazza completamente le due personalità anglosassoni così riservate, e dopo qualche incompresione iniziale permette di trasformare la convivenza forzata in vera amicizia, che diventa uno stimolo per ogni personaggio a far trasparire un proprio “io” diverso: forse artificiosamente influenzato dall’irruenza di Bob o forse il vero spirito genuino sotterrato per necessità di sopravvivenza durante anni passati a vivere tra squallidi quartieri e pessime compagnie.

Ma il lieto fine disneyano non fa parte della cultura jarmuschiana ed è inevitabile che esso alla fine dei conti riguardi solo quel personaggio che meno degli altri aveva necessità di un percorso di riscoperta spirituale. Per Zack e Jack dunque il viaggio verso la libertà segna forse paradossalmente il ritorno ad un mondo artificiale che blocca sul nascere quel percorso di maturazione psicologica intrapreso durante il “ridente” periodo carcerario. Se non è propriamente un messaggio irreversibilmente pessimista è però la constatazione che difficilmente le cose possono cambiare davvero in meglio, e che quel che conta per Jarmusch non è raccontare storie edificanti, ma semplicemente raccontare storie, possibilmente quelle di chi non se lo può permettere, nel miglior stampo realista apolitico.

Da segnalare la regia pressochè perfetta con cui Jarmusch gestisce gli eventi azzeccando praticamente ogni mossa, svettando nell’aere dei “virtuosi” quando ne ha la possibilità (vedi la sequenza iniziale che introduce in maniera quasi fiabesca ad un panorama urbano periferico) e eclissandosi completamente in altri momenti per lasciar sfogare completamente tutta la verve attoriale dei protagonisti. Difficile definire stilisticamente l’opera: un po’ noir poliziesco, un po’ commedia, sprazzi di dramma grottesco intrisi in un panorama filosofico prossimo ad un esistenzialismo inconsapevole. In una parola un classico.

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Voto degli utenti: 8,8/10 in media su 4 voti.
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Gulliver (ha votato 9 questo film) alle 9:35 del 13 settembre 2010 ha scritto:

"isn't it a sad and beautiful life?" "Oh, yeah".

bargeld (ha votato 9 questo film) alle 12:31 del 16 ottobre 2010 ha scritto:

i scream ice cream i scream ice cream! bello bellissimo.