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R Recensione

7/10

Cattedrali della cultura 3D regia di Karim Aïnouz , Michael Glawogger , Michael Madsen , Robert Redford , Wim Wenders , Margreth Olin

Documentario
recensione di Alessandro Giovannini

Collage di sei documentari di mezz'ora circa ciascuno su altrettanti edifici culturali di vario interesse sparsi tra Europa e Stati Uniti: la Filarmonica di Berlino, la Biblioteca Nazionale russa, il carcere di Halden, il Salk Institute, il Palazzo dell'Opera di Oslo, il Centre Pompidou.

La prima impressione avuta vedendo il film è che si tratta di un format più adatto alla serialità televisiva che all'uscita cinematografica. Poi ho scoperto che su IMDB viene effettivamente etichettato come "Tv Series", quindi immagino che almeno in Germania sia stato trasmesso anche sul piccolo schermo. In ogni caso l'uso del 3D ne giustifica la proiezione in sala, ed ha un motivo d'essere trattandosi di documentari d'architettura. Wim Wenders, ideatore del progetto, ha ritenuto il 3D in grado di conferire maggiore profondità ed immersione dello spettatore nella contemplazione delle forme e degli spazi ripresi, e bisogna dargli atto della saggia decisione. Contando il fatto che sono in pochi a predisporre di un televisore con funzione 3D risulta quindi razionale la scelta di proiettare in sala questo "kolossal" del documentario, quasi 3 ore di viaggio prevalentemente europeo (con una capatina negli States) alla scoperta di alcuni importanti poli culturali, dove cultura assume di volta in volta sfumature differenti di significato: da quella artistica (sedi di concerti e teatri) a quella scientifica (istituto di ricerca), a quella civica (il carcere come struttura rieducativa), con il vezzo stilsitico comune a quasi tutti i capitoli di attribuire una personalità all'edificio presentato, che parla allo spettatore in prima persona.

Gli approcci adottati variano leggermente da regista a regista, con esiti altalenanti, che dimostrano una scarsa coesione progettuale. In pratica è stata lasciata tanta libertà di approccio ai singoli autori, con un risultato complessivamente disomogeneo in termini di stili, linguaggi e concept dei vari documentari. Se alcuni si mantengono più vicini all'intento puramente documentaristico, altri optano per una visione poetica, ed altri ancora sembrano perdere di vista il supposto scopo dell'operazione.

Il segmento di Wim Wenders riguarda la Filarmonica di Berlino: suadenti movimenti di macchina ne esplorano esterni ed interni, senza dimenticare le persone che abitano quegl i spazi quotidianamente per svolgervi vari lavori. L'edificio, oltre a raccontare queste attività, parla anche della sua storia e costruzione, sottolineando il suo ruolo di aggregatore culturale in un quartiere originariamente periferico e a ridosso del Muro, divenuto oggi uno dei distretti più "in" della città.

Il segmento di Michael Glawogger riguarda la Biblioteca Nazionale russa, a Mosca: il regista si dà un gran da fare a mostrare la struttura labirintica e claustrofobica dell'edificio, e sceglie una colonna sonora di musica classica e coristica che attribuisce un senso di grande sacralità alle immagini. La scelta di usare la voice over unicamente per declamare brani di libri custoditi nella biblioteca si rivela invece meno felice, poichè spesso non si sa se dar retta alle immagini o alle parole, distraendosi dalle une o dalle altre.

Il segmento di Michael Madsen riguarda il carcere di Halden, in Norvegia: si tratta di un istituto di massima sicurezza che si pone l'obiettivo di rieducare i propri carcerati; essi vengono trattati con dignità in celle pulite e dotate di comfort (tv, frigorifero), possono camminare all'aria aperta in un ambiente boschivo (anche se ovviamente tutto il perimetro del carcere è recintato da un muro di contenimento), pregare in una cappella interconfessionale, praticare sport, instaurare un legame di rispetto con i carcerieri (tra strette di mano e partite a basket). Si tratta del segmento che ho apprezzato maggiormente, sia per l'utopia che un edificio del genere risulta essere per il nostro paese, sia per la strettissima correlazione fra edificio e suoi abitanti (cosa ovvia trattandosi di un carcere, dove più che mai la struttura dev'essere concepita a misura d'uomo, cioè in base alle persone che devono popolarlo) su cui il regista si concentra con discrezione e rispetto.

Il segmento di Robert Redford riguarda il Salk Institute, in California: si tratta di un centro di ricerca virologica, concepito dall'architetto Louis Kahn su richiesta del dottor Jonas Salk, che desiderava una struttura di ricerca isolata dai centri abitati, un luogo che permettesse una "fusione" con l'ambiente circostante (colline brulle a strapiombo sul mare) che permettesse agli scienziati la massima concentrazione ma al tempo stesso una situazione calma, confortevole e meditativa che favorisse la creatività. Il risultato è una specie di tempio laico, di monastero votato alla scienza. La pecca del segmento è la sua prolissità che costringe la voice over a ripetere più volte gli stessi concetti, accompagnati da carrelli e slider  sull'edificio che dopo poco tempo iniziano a risultare ripetitivi.

Il segmento di Margreth Olin riguarda il Palazzo dell'Opera di Oslo: è il segmento più "fuori tema" nel senso che si concentra maggiormente sugli artisti che lavorano all'interno (si filmano anche alcune performance) piuttosto che sull'edificio in sè, di cui viene offerta a malapena una visione di insieme. Ciò non toglie la possibilità di apprezzarne la pregevolezza architettonica, ma essa è un elemento secondario del documentario.

Il segmento di Karim Aïnouz riguarda il Centre Pompidou di Parigi: il famoso (o famigerato, a seconda dei gusti) polo d'arte contemporanea concepito da Renzo Piano e Richard Rogers nel 1977. Il documentario in sè è piuttosto completo nella sua completezza l'edificio (esterno, interno museale ed interno riservato agli addetti ai lavori), insistendo sul rapporto tra gli spazi e gli avventori delle mostre temporanee che vengono allestite. Ha forse meno fascino rispetto ad altri segmenti per il fatto di riguardare un edificio già ampiamente conosciuto; manca quindi quel senso di "andare alla scoperta di qualcosa", manca il senso di novità dell'operazione, che si attiene comunque ad un'esposizione esaustiva.

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