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5/10

Arance E Martello regia di Diego Bianchi

Commedia
recensione di Flavio De Cinti

Estate 2011. “È il giorno più caldo dell'estate più calda degli ultimi 150 anni dell'Italia unita". Un gruppo di attivisti della sezione del Pd di via Orvieto, nel quartiere San Giovanni a Roma, vuole contribuire alla raccolta di dieci milioni di firme per far dimettere Silvio Berlusconi, e piazza il suo banchetto accanto al banco del pesce del mercato rionale. Quando la radio del quartiere dà la notizia che l'amministrazione locale vuole chiudere il mercato, i commercianti si rivolgono alla sezione perché appoggi la loro protesta. Ma arrivare ad una sinergia non è semplice: servono le consultazioni, il voto, il benestare del partito. La tensione monta, e tutti litigano per difendere i propri interessi e i propri punti di vista. Chi la spunterà, alla fine della giornata?

Presentato alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2014, “Arance e Martello” è l’esordio cinematografico di Diego Bianchi. Complice il successo del programma cult “Gazebo”, Bianchi decide di passare dietro la macchina da presa per raccontare una storia che ricalca perfettamente tutti gli elementi che lo hanno reso celebre sul piccolo schermo e sul web. Roma, il circolo del PD, le interviste agli abitanti, il complicato rapporto tra politica e territorio. E “Il Capitano”. Il film mette subito le carte in tavola; cita apertamente e a più riprese lo Spike Lee di “Fa' la cosa giusta”, cerando di inserire i tipici elementi giornalistici (e non) dello Zoro televisivo all’interno di una struttura filmica che ricalca ampiamente il film del regista newyorkese. Lo spunto di partenza è buono, così come sono azzeccati una serie di attori e caratteristi, ma la pellicola inciampa proprio dove ti aspetteresti da un progetto del genere. La prima parte ha ritmo, buoni dialoghi e introduce bene i personaggi del film, dai commercianti del mercato di San Giovanni ai tesserati del circolo PD. Purtroppo, la seconda  metà del film perde lucidità e predilige l’aspetto politico, lasciando un po’ in secondo piano quel disincanto romanesco che da solo poteva rendere quest’opera un piccolo cult. Troppo timida la regia di Bianchi per riuscire a fugare quella spiacevole sensazione di “puntata di Gazebo / Tolleranza Zoro di un’ora e mezza” che si prova ad ignorare, ma che onestamente non svanisce mai del tutto. I riferimenti alla politica comunale della giunta Alemanno (vedi alla voce “Quattordicine”) rendono inoltre la pellicola più indigesta agli spettatori che non vivono quotidianamente la realtà capitolina o non conoscono i precedenti lavori di Bianchi. Proprio come accade nel film, nel quale il Diego protagonista, inizialmente distaccato e neutrale, passa poi attivamente dall’altra parte della barricata, il regista finisce per perdersi eccessivamente nella “sua” storia. Pochi rischi presi, qualche lungaggine di troppo e accenni di velleità registiche solamente accennati; Bianchi è visibilmente più a suo agio quando ricorre alla telecamera a mano, suo marchio di fabbrica televisivo. Questo nonostante elementi positivi che fanno sicuramente ben sperare per il futuro. I vari campi/controcampi dei tre vecchietti che si ritrovano al bar per commentare disincantati le vicende del film, ad esempio, mostrano tutto il potenziale satirico e sociale che Zoro potrebbe utilizzare all’interno di un formato cinematografico in un prossimo lavoro. Rimandato, aspettiamo fiduciosi.

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