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7/10

Adieu au langage regia di Jean-Luc Godard

Drammatico
recensione di Pasquale D'Aiello

L'ultima ricognizione di Godard sullo stato del linguaggio attraverso l'analisi della forma più complessa costituita dal dispositivo del cinema 3D.

Adieu au langage è un meccanismo cinematografico a cui Jean-Luc Godard affida il compito di scomporre il dispositivo cinema e lanciare una sfida finale al linguaggio tutto. Alla radice di questa operazione pone una contraddizione tra la natura e la metafora ovvero tra il reale e il linguaggio.  E di quest’ultimo se ne denuncia l’inadeguatezza a descrivere il primo. Per rappresentare questa dicotomia Godard utilizza diegeticamente la contrapposizione tra la capacità di amare del cane (rappresentante della natura) e l’incapacità a farlo (che passa attraverso la difficoltà di esprimere l’amore attraverso il linguaggio) di una coppia uomo-donna. Questa frattura tra il reale e il linguaggio attraversa anche il cinema che per la sua intima struttura si è sempre proposto di riconnettere queste due dimensioni, oscillando dalla posizione realista di Bazin (con prevalenza del piano sequenza e interpretazione dello schermo come una finestra) e quella costruttivista di Eisenstein (imperniata sul montaggio e interpretazione dello schermo come cornice). Tali interpretazioni cinematografiche opposte trovano un momento di contrapposizione esplosiva quando nel film di Godard osserviamo contestualmente la presenza di un bordo  (che sembra rappresentare fisicamente la limitatezza della mdp  che diventa naturalmente una cornice) in un’inquadratura che riprende una finestra (vera e propria) dalla quale si vede un bosco (il reale, la natura) ma attraverso l’interposizione di una stanza (che può rappresentare la mediazione dell’occhio e dei sistemi di ripresa) che inevitabilmente finisce per impedire la possibilità di sentirsi immersi nella realtà cinematografica. Il flusso di immagini ripercorre l’evoluzione del linguaggio dalle forme classiche della scrittura e della pittura fino al cinema, (da quello muto ed in bianco e nero passando per quello sonoro e a colori fino al 3D. L’introduzione del 3D rappresenta, nella visione di Godard, un’ulteriore elemento tecnico che per ottenere maggior realismo finisce per introdurre un’ulteriore elemento di falsificazione della realtà. Per dimostrare tale intima e ontologica incapacità della tecnica (che è parte del linguaggio cinematografico) a rendere fedelmente il reale, Godard inserisce delle disfunzionalità all’interno del 3D che evidenziano (e, dunque, decostruiscono) la struttura attraverso cui si ottiene l’immagine tridimensionale (ripetendo quel che aveva già fatto introducendo nella diegesi dei suoi film le attività di lavorazione del film, come ad esempio in Crepa padrone, tutto va bene (1972) che altro non è se non un’illusione ottica prodotta attraverso la giustapposizione di due immagini bidimensionali che l’occhio pone su piani differenti per dargli un senso. Qual è il percorso suggerito da Godard per giungere a quella verità che Platone sosteneva essere rivelata dallo splendore della bellezza?  Certamente andrebbe avviato un percorso di recupero della dimensione corporea ma l’esito di tale sforzo è tutt’altro che certo, avendo l’uomo fatto del linguaggio (e, dunque, dell’astrazione del/dal reale) la propria dimensione identitaria. L’alternativa probabilmente va cercata nella messa a sistema dei concetti a cui si allude  all’inizio e alla fine del film attraverso la frase: “la realtà è il rifugio di chi non ha fantasia” e la canzone “La violenza” (1968) di Alfredo Bandelli, che è un inno alla ricomposizione del soggetto rivoluzionario ovvero operai e intellettuali. Se la frase è una chiara presa di distanza da chi sostiene che la tecnica possa restituire la realtà oggettiva senza un’attività di interpretazione soggettiva come la fantasia, la canzone forse merita un piccolo approfondimento. Alfredo Bandelli è stato un cantautore che ha accompagnato con le sue canzoni sia il movimento del ’68 sia quelli degli anni 70. La sua particolarità consisteva nel non firmare i  brani che componeva col proprio nome ma con la dicitura: “Parole e musica del proletariato”. Di questo autore vale la pena di citare una frase: “Il linguaggio che uso non so bene da cosa ha preso, sono troppo ignorante per saperlo, certo è che l'unica musica che mi piace sono le canzoni popolari, fin da quando ero bambino e mio padre per anni mi cantava le canzoni partigiane: era l'unica forma di divertimento; fino a sedici anni non ho avuto né radio né televisione e le scuole elementari le ho fatte quasi tutte in un collegio per poveri. Ricordo quando mio padre raccoglieva cicche e stracci e passavo lunghe giornate con lui in giro: mi raccontava fatti bellissimi che gli erano successi da partigiano, mi raccontava di un mondo diverso dove i poveri erano eroi e sparavano per cacciare i fascisti e i padroni. Ebbene io a quei racconti mi ci aggrappavo come a un'ancora dl salvezza. Ecco la mia matrice culturale” (fonte: Wikipedia). Questa affermazione offre un’originale chiave di lettura in termini di connessione tra linguaggio e classe: l’unico linguaggio di verità è quello del proletariato poiché è la classe cui è affidato il compito della rivoluzione. Se gli operai sono gli interpreti della realtà, agli intellettuali probabilmente tocca il compito di aggiungervi la fantasia come proclamavano gli studenti nel ’68 chiedendo “La fantasia al potere” affinché si realizzi quello che afferma un verso della canzone di Bandelli: “Sempre uniti vinceremo. Viva la Rivoluzione”.

Voto: 7/10

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