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6/10

3 Coeurs regia di Benoît Jacquot

Drammatico
recensione di Alice Grisa

Un uomo conosce una donna, durante una notte in provincia. Dopo ore passate a chiacchierare, decidono di darsi appuntamento la settimana successiva. Ma le cose non andranno come previsto.

 

Sliding Doors meets La signora della porta accanto. Con esiti imprevedibili.

È un concentrato di imperfezioni questo film francese e indefinito, troppo fischiato e troppo applaudito, problematico e problematizzante. Lo spunto è potente, la mise en scène se ne allontana e lo porta alla deriva.

L’incertezza stilistica (melodramma, thriller dell’anima, dramma borghese, noir e nero), brandizza 3 Coeurs come un certo tipo di “non-genere” cinematografico, ma non è questo a nuocere all’economia narrativa e alla riuscita del film. 3 Coeurs è un film chiaroscurale carico di contraddizioni che ne rovinano l’anima filoesistenzialista, è una riflessione sui casi (sfortunati) della vita e sulla cattiva stella. Per Jarmush solo gli amanti sopravvivono, per Benoit Jacquot solo gli amanti soccombono. Purtroppo il tema, forte ed evocativo, non viene sviluppato nel migliore dei modi consegnando una pellicola che non sarà indimenticabile.

L’inizio, alla “Prima dell’alba”, regala la meraviglia: un uomo, una donna, una notte. Nella culla dorata di una piccola città sboccia un amore concettuale, nato puro dalle chiacchiere della notte, dal raccontarsi senza conoscersi. Dopo una sigaretta fumata velocemente in mezzo alla strada, qualcosa è cambiato. Uno dei misteri più splendidi della vita. Non ci sono social, telefoni e neanche nomi. Solo un appuntamento, per il venerdi successivo, alle Tuileries, sulle sedie verdi a due passi dal Louvre. Ma le cose andranno diversamente.

Si parte dal romantico per finire sul tragico con cambio di registro e miscuglio di generi (su immagini sentimentali viene innestata una colonna sonora che ricorda il thriller, perché – sembrerebbe dire il regista - i meccanismi del cuore possono essere trappole mortali). La storia scorre catalizzata da gesti e oggetti: un accendino, una sigaretta, una sedia che riescono a reificare le sensazioni. Insensata la voce fuori campo, che appare a metà e alla fine senza coerenza logica (ma chi parla? Uno dei personaggi? Un narratore onnisciente?)

Charlotte Gainsbourg e Chiara Mastroianni si muovono come reagenti in una soluzione acida: nervosa e sfuggente la prima, posata e malinconica la seconda; costruiscono disarmonie e ricostruiscono dilemmi che si dissolvono nell’aria come il fumo delle (tante) sigarette. Poi c’è Benoît Poelvoorde che non riesce a far comprendere il motivo del proprio “fascino”. Catherine Deneuve è la madre cuoca silenziosa e dolorosa testimone, ma non riesce a dare al suo personaggio quella grandiosità che si è portati ad aspettarsi fin dalla prima scena.

L’idea era realizzare una tavola anatomica dei sentimenti; al centro il cuore, barometro dei sentimenti e vittima della crudeltà del destino (la malattia cardiaca di Marc lo accompagna per tutto il corso della vicenda): è il male che si accanisce sugli amanti il tema che dovrebbe essere centrale, ma purtroppo viene adombrato da una predilezione per l’intreccio, per la meccanica della tresca, che fa tendere il film quasi a confini soappeschi, bypassando il sostrato riflessivo. L’accanimento sul tormento e l’estasi getta alcune scene nell’involontario ridicolo, facendo perdere al film una grande, grandissima occasione. Anche le due anime del funzionario fiscale, odiosamente irreprensibile sul lavoro quanto “reprensibile” nel privato, potevano essere un’analisi interessante, ma il regista si limita ad accennarle.

Il tracciato dell’elettrocardiogramma è un saliscendi, ma queste percosse crudeli sul cuore toccano più il morboso che il sentimentale. Il finale arriva a ingarbugliarsi su sé stesso con la sensazione di qualcosa che avrebbe potuto essere un film d’autore ma ha tirato la freccia lontano dal bersaglio.

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